06 Dic METZ – Strange Peace (SUB POP 2017)
Metz – Strange Peace (SUB POP 2017)
Voto: ∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆
Qualche giorno fa parlavo con un amico di che cosa volesse dire fare musica e circondarsi di arte, in generale. “Io non voglio vivere in questo mondo, forse fare musica, fare arte è un modo per allontanarsi da tutto quello che fa schifo in questo posto. Io faccio parte di un altro posto”. Oggi leggo velocemente lo stream di notizie che mi gira davanti sui social e ci sono una dozzina di fascisti che armeggiano fumogeni sotto la sede della Repubblica, qualche settimana fa un altro gruppetto di fasci interrompe la riunione di un’associazione culturale a Como per imporre il suo punto di vista in tipica tenuta da squadrone 2.0 (qualcuno deve aver filmato con degli smartphone, non c’era certo l’istituto luce a seguirli). Poi la nube tossica che dalla Russia è arrivata in Europa, da Mayak fino alla nostra Romagna, Trump riconosce Gerusalemme come la capitale di Israele, Berlusconi che torna in scena a 81 anni con evidenti disturbi dislalici e, mentre promette la vita fino a 125 anni, Di Maio parla come fosse già presidente del consiglio. Insomma una totale e incondizionata merda.
Ma per venirne fuori oggi ho scelto di dare retta a quel mio amico e di ascoltare un po’ di musica. Mi passano per le mani i Metz, trio canadese dedito a quello che i ggiovani chiamano post-hardcore. Anticipo subito che “Strange Peace” – questo è il titolo del loro 3° disco – mi sta garbando assai assai. E vi spiego anche il perché. Perché Strange Peace è un disco che arriva diretto, con i suoi 36 minuti di durata, che non perde occasione di tenerti lì, come su di un ring in cui hai il dono dell’immunità totale mentre, una dozzina di pugili non smettono di picchiarti. E tu li guardi deridendoli.
Si parte con con Mess of Wires in cui i Metz scendono subito a scoperte: “il nostro disco è prodotto da Steve Albini, sì quello degli Shellac e di In Utero. E usciamo per Sub Pop. Sì quella di Up in It degli Afghan Whigs e del grunge. Ma noi gli Afghan Whigs non sappiamo neanche chi sono, ascoltavamo a manetta dei gran Jesus Lizard”. Drained Lake e Lost in the Blank City rispettivamente raddoppiano e dimezzano il tiro, facendo uscire da un cassetto impolverato vecchi album di fotografie dei The Cooper Temple Clause, mentre in Cellophane c’è qualcosa di inglese. Caterpillar attacca come Searching with my Good Eye Closed su di un giradischi in cui il disco salta, creando un loop ipnotico, Mr. Plague e Dig a Hole sono pura violenza punk mentre Sink (lavandino in italiano ndr.) sembra proprio avere il compito di svuotare le orecchie, anche solo dopo appena 20 minuti di musica. Common Trash riparte in pompa magna con un riff srubacchiato da Era Vulgaris dei QOTSA – ebbene sì – in cui però Nick Olivieri ha avuto modo di mescolare le carte, imbevendole possibilmente in qualche sostanza eccitante. Escalator Teeth è un outro simpatico di chitarra elettrica, voce e batteria, mentre Raw Materials chiude il disco con una struttura a V, in cui gli estremi piacerebbero tanto agli italianissimi Lleroy, band che ammiro dalla prima volta che ho avuto il piacere di suonarci assieme, mentre nella parte centrale compare per un brevissimo cameo una traccia dinamica di psicadelia.
Dicevamo, la società è una merda, la gente fa schifo e la politica non ne parliamo. Ma ringraziamo i cieli vuoti perchè anche oggi un gran bel disco ci è passato per le mani senza fare nemmeno una sudatina.
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