13 Ott Matt Cameron – Cavedweller (Migraine Music, 2017)
Matt Cameron – Cavedweller (Migraine Music 2017)
Voto: ∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆
Prima c'è stato il testamento musicale di David Bowie e l'epitaffio Blackstar, poi la morte inattesa e al tempo stesso annunciata di Chris Cornell. Poi il disco solista di Matt Cameron Cavedweller. Storie che hanno certamente pesi diversi nel grande libro della storia del rock e che apparentemente si presentano scollegate, ma che in uno strano gioco di specchi diventano una cosa sola. Dicevamo David Bowie e il suo Blackstar. Un disco oscuro e denso come petrolio, in cui il duca bianco si abbandona al destino, che poi è il destino di ogni uomo prima o poi. Un disco spettrale, oscuro e al contempo dolce e conciliante. Molto, sperimentale, arrangiato e suonato con soluzioni capaci di miscelare elettronica e rock, anche grazie ad una sezione ritmica suprema, che risponde al nome di Tim Lefebvre e Mark Guiliana. Poi c'è Chris Cornell, la voce più potente del grunge e fondatore dei Soundgarden, che ha scelto di andare in contro al proprio destino - lo stesso di Bowie, passando per la strada più corta - quando tutto sembrava calmo e la burrasca alle spalle. Il cerchio lo chiude proprio Matt Cameron, glorioso batterista e former dei Soundgarden, che sceglie per il suo debutto solista (classe 1962) proprio quella sezione ritmica che aveva accompagnato Bowie sul suo ultimo giro in studio.
Io stesso date queste premesse ho immaginato Cavedweller come un requiem fra i più devastanti e dissonanti, ma é qui che ci si sbaglia. Matt Cameron non è né David Bowie, né Chris Cornell. Aveva già fatto intendere con i Clearwater Conspiracy l'introspezione non è nelle sue corde, quanto piuttosto la psichedelia. I dieci anni passati in compagnia di Eddie Vedder e la famiglia dei Pearl Jam poi hanno lasciato solchi profondi nel suo modo di fare musica, così come nelle 9 tracce dell'album, in cui percepisce una bella energia, tradotta in tempi dispari, chitarre distorte, spigolose, sovrastate da echi fatti di synth e voci. Voci annebbiate e mai protagoniste, ma con linee melodiche che suoneranno così familiari agli amanti del rock dei 90's.
Time can't wait fa subito capire che stiamo parlando del disco solista di uno che c'era quando serviva esserci, musicalmente molto vicino agli ultimi Pearl Jam, All at once è pura energia dispari e uno degli episodi più grunge dell'intero disco, Blind scorre veloce come una ballad in cui chitarre acustiche si alternano a crunch elettrici e sintetizzatori dream pop, Through the ceiling è un un pezzo mid tempo con armonizzazioni interessanti in cui campeggia un riff di chitarra che poggia su un letto di charlestone che sembra rubato a Jack White, in One Special Lady, Dave Gunn sembra alternarsi a Jerry Cantrell nell'esecuzione delle parti vocali e nelle intere atmosfere del brano, uno dei più riusciti, In the trees scorre veloce e un po' superflua, Into the fire è un brano strumentale acid-jazz-rock, Real and Immagined inizia con una sequenza che ricorda (solo per pochi istanti) i Radiohead di Insomniac, prima di ritornare ad essere un esperimento fra i meno riusciti dell'album, Unnecessary chiude con un'atmosfera che evoca più di tutte quella caverna di Cavedweller, in cui un Josh Homme grassoccio e maturo supplica Jack Endino di suonare un'ultima volta assieme.
Messo nello stereo e ascoltato senza riferimenti, Cavedweller sarebbe un grande disco, per chi come me è abituato ad ascoltare band indipendenti. Al pensiero di sapere che là dentro c'è il batterista dei compianti Soundgarden, da oltre dieci anni in forza ai Pearl Jam, che di suo pugno ha scritto tutti i brani, li ha cantati e ha registrato tutte le parti di chitarra, il giudizio inevitabilmente si ricalibra. Tuttavia, il cuore si riempie e i riflessi di quello strano specchio sembrano trovare una via d'uscita.
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